workaholic

Il lavoro del freelance: Cechov e l’ossessione del lavoro a tutti i costi

Lavoreremo per gli altri, e adesso e nella vecchiaia, senza riposo..

Ho riletto in questi giorni Zio Vanja e (non) mi sono stupita di quanto, ancora, questo testo riesca a raccontare la contemporaneità – certo in maniera traslata, diversi sono i tempi, uguali le (dinamiche tra le ) persone. Zio Vanja mi ha ricordato moltissimi free lance, colleghi e non, che s’ammazzano di lavoro senza tregua, a capo chino (che è metà tra la carica di un ariete sfondaporte e la sottomissione del cane) che hanno fatto del lavoretto la propria missione di vita: in fin dei conti, è lavoro, no?

 

Mi pagano, poco, ma mi pagano. Non mi danno soldi, ma è un bel contatto. Così l’anno prossimo mi richiamano, forse. Mi pagano pochissimo, ma mi interessa il progetto. Così possono farsi grandi, loro, e l’anno prossimo mi richiamano, forse.  Ero a casa, è arrivato questo, ho preso il lavoro, piuttosto di niente.  Lavorare per lavorare. Lavorare per non avere il tempo di pensare, per evitare di guardarsi, di prendersi in mano veramente, tenersi impegnati per non rischiare di diventare grandi, di assumere sè stessi. Assumersi.

Zio Vanja si è sacrificato tutta la vita per la gloria del fratello, mandandogli soldi ogni mese, seguendo una disciplina durissima, sopravvivendo. Ciò che lo farà esplodere dopo decenni sarà la semplice constatazione  che il fratello venerato come divino, tanto divino non è e che il sacrificio della sua vita al lavoro non gliel’ha chiesto nessuno. Cercherà di ammazzare il fratello, ma si è talmente poco abituato all’azione, che mancherà il tiro per ben due volte. Fuggito il divin caduto, finalmente liberato  dalla sudditanza, cosa decide di fare Vanja? Niente.  Di tornare alla sua vita, ai suoi lavoretti, al tirare a fine mese, a dire di sì a tutto purchè sia lavoro e impieghi il tempo.

Il nostro Vanja non chiede a sè stesso ciò che con arroganza ha richiesto al fratello (è molto facile chiedere agli altri la grandezza, molto pericoloso coltivare la propria) ma si compiace in un “Sto male. Sapessi come sto male”. Sul suono in sordina di una chitarra, il dramma si chiude con il famoso monologo di Sonja, workaholic come lo zio ” Zio Vanja, vivremo. Vivremo una lunga, lunga fila di giorni, di lente serate: sopporteremo pazientemente le prove che il destino ci manderà; lavoreremo per gli altri, e adesso e nella vecchiaia, senza riposo e quando arriverà la nostra ora, moriremo umilmente (..) e riposeremo!”

E’ talmente ormai insito il terrore di rimanere senza niente e senza fare niente,  l’horror vacui ( che è dal vuoto cosmico che si crea, ma ci vuol coraggio, per guardare nell’abisso) che spesso ci disperdiamo e sperperiamo il nostro talento e la nostra professionalità in attività che, a lungo andare, ci logorano. E la colpa dell’insoddisfazione, immancabilmente, diventa del fratello, dei colleghi, del mestiere difficile, della crisi,  dei tempi balordi. Lavorare su di sè, sui propri obiettivi, e assumersi la responsabilità di noi stessi, dei nostri vuoti e delle nostre ore lente, questa sì che sarebbe la rivoluzione.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *